martedì 25 gennaio 2011

Un gatto nel mio primo romanzo

Pruzzo si chiamava così per via di un calciatore.

Quando lo avevo trovato, la convivenza con Sonia era finita da poco. Era domenica, era luglio, faceva un gran caldo. Mi giravano le palle. Ero stato a trovare un amico nel Chianti, gli avevo vomitato addosso tutte le mie paranoie. Si era pranzato insieme e si era bevuto del buon vino. Verso le quattro del pomeriggio venni via. Girai un po’ con la macchina, tenevo la musica alta e i finestrini spalancati. Non trovavo pace. Arrivai a Castellina, e prima di entrare in paese vidi le indicazioni per le tombe etrusche. Che cazzo saranno mai, pensai. Decisi di andare a vedere. Parcheggiai, non c’era un’anima, ero triste e solo, sudavo da fare schifo. 
Le tombe etrusche erano delle stanze scavate sottoterra, con poca luce ma con qualche grado meno che fuori. Andavo avanti a tentoni, ero deluso e annoiato. Poi vidi muoversi qualcosa. Una specie di topo, un cazzetto con le gambe, una cosa minuscola nell’angolo più buio dell’ultima stanza. Mi avvicinai, e Pruzzo mi mise gli occhi negli occhi. Era grande quanto il palmo della mia mano, tutto marrone con tre strisce più chiare sulla schiena. Era sporco di fango, aveva la bocca piena di terra e un occhio rosso, gonfio, malato. Tremava, sembrava mezzo morto. Ma era bello come il sole, piccolo e puro, era la vita. Me ne innamorai. La mia libertà era finita tre passi prima, nella penultima stanza di quella tomba del cazzo. Raccattai Pruzzo, lo sistemai tra le cosce e guidai piano fino al primo bar. Chiamarono il veterinario del paese, un uomo sulla sessantina, un po’ gobbo e completamente calvo. Si vantava di essere un mago con le capre e le pecore, ma il suo forte restavano le mucche. Non capii che cosa volesse dire, comunque fu molto gentile. Aprì lo studio e visitò il micio. Gli trovò la febbre altissima, mi disse che probabilmente aveva la polmonite. Gli fece una puntura di glucosio, gli prescrisse tre medicinali e mi spiegò la terapia. Poi mi regalò una scatola di latte in polvere e un biberon.
«È nato da poco, avrà una settimana», mi disse. «Sarà difficile farlo campare. Così piccoli, senza la mamma, muoio­no. Se vuole provare a salvarlo deve dargli da mangiare ogni ora, giorno e notte».
«Lo farò».
«Non si illuda. È molto probabile che non ce la faccia».
Mi sentivo crepare. Ma quella bestiola non sarebbe morta, non così presto, non adesso che aveva incontrato me.
«Poi, è importante che il gatto mangi, ma deve anche defecare», disse il veterinario.
«Lo immagino».
«Da solo non è capace di farlo. Quando sono molto piccoli, mamma gatta lecca i cuccioli sul didietro…».
«Che cosa vorrebbe dire?».
«Lei deve prendere un batuffolo di cotone, bagnarlo con l’acqua calda e stimolare il gatto».
«Come?».
«Glielo strusci sulla pancia, e sul culo».
«Porco cane».
«Se non caca, esplode. Non ci sono alternative».
«Lo farò», dissi. Sudavo freddo.
«Deve anche creargli un habitat simile a quello di mamma gatta. Lo metta in una cuccia non troppo grande, con un cencio di lana pelosa».
«Va bene».
«Metta anche una borsa dell’acqua calda, sotto. Deve dargli il calore materno. Le segno anche un collirio. Glielo dia tre volte al giorno, solo nell’occhio malato».
«D’accordo».
«Sembra davvero una brutta infezione, per me resta cieco».
Sospirai, recuperando il mio micio. Mi chiedevo cosa mi avesse spinto nelle tombe etrusche. Non me n’era mai fregato un cazzo di quella roba, e poi si dice il destino.
Pruzzo segnò le mia vita. Feci tutto quello che c’era da fare, comprese quelle cose che non avrei mai raccontato. Le nottate, il biberon ogni ora, la borsa dell’acqua calda, il collirio, il batuffolo sul culo. Perfino i clisteri, quelli che prendono i bambini, perché ogni tanto Pruzzo s’inceppava e il cotone non serviva a nulla. Vivevo per lui, non c’era tempo e forza per fare nient’altro. Al mondo raccontavo scuse molto più ridicole di un gatto da svezzare. Intanto dimagrivo e non chiudevo occhio senza vedermi il suo musetto davanti, le sue zampette sulla faccia.
Un giorno su due pareva che Pruzzo dovesse crepare. Lo portavo dal veterinario di Calenzano, un tipo strano, più famoso per le battute di caccia al cinghiale che per la sua professione. Ogni volta faceva una puntura al mio cucciolo e scuoteva la testa.
«Mi sa che muore», diceva.
Invece Pruzzo campava. L’occhio migliorava, e dopo il latte arrivarono gli omogeneizzati, qualche ora di sonno, poi il magico mondo delle scatolette e delle scoregge incredibili, roba da far evacuare la casa, e poi la consapevolezza degli artigli, la demolizione della poltrona e delle tende del bagno, la sua lingua dappertutto, la carne rubata dal piatto, le prime corse nel prato, le prime gattine da corteggiare e la sensazione magica di aver combinato qualcosa di grandioso.
«Ormai non muore più», disse il veterinario-cacciatore alla centesima puntura.
Avevo voglia di mandarlo affanculo. Io lo sapevo da sempre che Pruzzo ce l’avrebbe fatta, perché era una bestia speciale. Con lo stile dei felini di razza e la tendenza all’obesità dei maiali d’allevamento. Bello, il mio micio.

(da Donne e topi, Fazi editore, 2004)

Dopo dieci anni alla Roma, di cui fu bandiera, nella stagione 1988-1989 Roberto Pruzzo trascorse un campionato con la Fiorentina; raccolse 6 presenze da inizio partita più qualche scampolo di gara; nello spareggio del 30 giugno 1989, contro la Roma, su cross di Roberto Baggio, segnò di testa il suo unico gol della stagione, che consentì ai viola l'accesso in Coppa UEFA.



4 commenti:

  1. Anonimo Juventino Potentino26 gennaio 2011 alle ore 13:33

    ah ah. spassoso&perfetto. (e già letto anni fa). sembra di leggere pagine fantiane del CANE STUPIDO...

    ti segnalo un errore di battitura:
    Pruzzo segnò le mia vita

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  2. Grazie. A quato punto mi sa che il refuso c'è anche nel libro...

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  3. Anonimo Juventino Potentino26 gennaio 2011 alle ore 17:06

    a QUATO punto mi sa di sì...

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  4. Sai, senza il (la) ghost writer io sono spacciato. LO SANO TUTI CHE SONO SPACIATO.

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