martedì 4 gennaio 2011

Nel mio ultimo romanzo non cito nessuno


Ha già ripreso a piovere. Dal tetto del palazzo di fronte colano delle striature di muffe nere, che imbrigliano la facciata in una rezza. È oscena, sa di sciatteria e povertà, manutenzioni da rimandare. Al terzo piano, appartamento di sinistra, ci stanno sempre lenzuola bianche stese, giorno e notte, d’estate e d’inverno. È come se qualcuno le avesse dimenticate là, o se tendesse e stendesse di nascosto, per non farsi vedere da me. Al piano di sotto, Ugo s’affossa nella poltrona, a due metri dalla televisione. Sessant’anni, in pensione da una quindicina per via di un infortunio. Guidava ruspe per una ditta che lavorava con il Comune. Rimase con un piede sotto a un cingolo. Ora zoppica, ma poco più di me, s’aggrava giusto durante le visite di controllo. È solo, abbandonato come un cane, da sempre. Mai entrata una creatura in casa sua, neanche un canarino in gabbia, neanche il prete a benedire. L’ho visto tante volte masturbarsi, in questa precisa posizione, senza mai preoccuparsi di tirare le tende. Ha un uccello grosso come un matterello, ma deve essergli servito a poco nella vita. Più in alto a sinistra, nella casa che sta in faccia alla mia, ci vive un ragazzo sui vent’anni, da solo con la madre. Il padre è morto qualche anno fa e gli ha lasciato una piccola ditta di fibbie e gancetti di ferro, le rate dell’auto da pagare e certi debiti con i “neri” dell’agenzia ippica. La casa no, era già sua. Lui ha mollato la scuola e s’è messo sotto con la fabbrichetta. Non fa altro. Sta in fissa con il lavoro e con il calcio, l’unico svago sono le partite allo stadio, come massima trasgressione una trasferta. Donne zero. Si chiama Stefano. Spesso dà fuori di testa e se la prende con la madre, che si chiama Giada. Gridano che si sentono anche con i doppi vetri serrati. L’ho visto prenderla a schiaffi, afferrarla per i capelli, rincorrerla con la scopa. Una sera la scaraventò per terra e le piombò addosso e continuò a dargliele, sulla testa, sulle tette, sulla pancia. Afferrai il telefono senza sapere quale numero chiamare. Stetti lì, paralizzato con il cordless in mano, e continuai a guardarli. Pensai a quanta gente come me osservasse inerme da dietro le tapparelle, o forse nessuno, ero l’unico codardo. Pensai alla polizia e ai carabinieri ma poi chiamai proprio loro, in quella casa, e dal balcone vidi Stefano rallentare i colpi e smettere, alzarsi e passarsi le dita tra i capelli crespi, toccarsi le labbra, guardarsi le mani e incamminarsi di là, nell’ingressino, per andare a rispondere. Lasciai che lo facesse e poi riagganciai, e richiusi l’elenco telefonico senza appuntarmi il numero.

(da L'umanità, Elliot, 2010)

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