lunedì 31 gennaio 2011

Firenze


Un amico mi ha raccontato un sogno che ha fatto: Piazza Duomo deserta, senza più la cattedrale, né il campanile, né il battistero, ma soltanto un misero water nel mezzo, spoglio, senza neppure la cassa dello sciacquone. Chissà se significa qualcosa di preciso.

martedì 25 gennaio 2011

Un gatto nel mio primo romanzo

Pruzzo si chiamava così per via di un calciatore.

Quando lo avevo trovato, la convivenza con Sonia era finita da poco. Era domenica, era luglio, faceva un gran caldo. Mi giravano le palle. Ero stato a trovare un amico nel Chianti, gli avevo vomitato addosso tutte le mie paranoie. Si era pranzato insieme e si era bevuto del buon vino. Verso le quattro del pomeriggio venni via. Girai un po’ con la macchina, tenevo la musica alta e i finestrini spalancati. Non trovavo pace. Arrivai a Castellina, e prima di entrare in paese vidi le indicazioni per le tombe etrusche. Che cazzo saranno mai, pensai. Decisi di andare a vedere. Parcheggiai, non c’era un’anima, ero triste e solo, sudavo da fare schifo. 
Le tombe etrusche erano delle stanze scavate sottoterra, con poca luce ma con qualche grado meno che fuori. Andavo avanti a tentoni, ero deluso e annoiato. Poi vidi muoversi qualcosa. Una specie di topo, un cazzetto con le gambe, una cosa minuscola nell’angolo più buio dell’ultima stanza. Mi avvicinai, e Pruzzo mi mise gli occhi negli occhi. Era grande quanto il palmo della mia mano, tutto marrone con tre strisce più chiare sulla schiena. Era sporco di fango, aveva la bocca piena di terra e un occhio rosso, gonfio, malato. Tremava, sembrava mezzo morto. Ma era bello come il sole, piccolo e puro, era la vita. Me ne innamorai. La mia libertà era finita tre passi prima, nella penultima stanza di quella tomba del cazzo. Raccattai Pruzzo, lo sistemai tra le cosce e guidai piano fino al primo bar. Chiamarono il veterinario del paese, un uomo sulla sessantina, un po’ gobbo e completamente calvo. Si vantava di essere un mago con le capre e le pecore, ma il suo forte restavano le mucche. Non capii che cosa volesse dire, comunque fu molto gentile. Aprì lo studio e visitò il micio. Gli trovò la febbre altissima, mi disse che probabilmente aveva la polmonite. Gli fece una puntura di glucosio, gli prescrisse tre medicinali e mi spiegò la terapia. Poi mi regalò una scatola di latte in polvere e un biberon.
«È nato da poco, avrà una settimana», mi disse. «Sarà difficile farlo campare. Così piccoli, senza la mamma, muoio­no. Se vuole provare a salvarlo deve dargli da mangiare ogni ora, giorno e notte».
«Lo farò».
«Non si illuda. È molto probabile che non ce la faccia».
Mi sentivo crepare. Ma quella bestiola non sarebbe morta, non così presto, non adesso che aveva incontrato me.
«Poi, è importante che il gatto mangi, ma deve anche defecare», disse il veterinario.
«Lo immagino».
«Da solo non è capace di farlo. Quando sono molto piccoli, mamma gatta lecca i cuccioli sul didietro…».
«Che cosa vorrebbe dire?».
«Lei deve prendere un batuffolo di cotone, bagnarlo con l’acqua calda e stimolare il gatto».
«Come?».
«Glielo strusci sulla pancia, e sul culo».
«Porco cane».
«Se non caca, esplode. Non ci sono alternative».
«Lo farò», dissi. Sudavo freddo.
«Deve anche creargli un habitat simile a quello di mamma gatta. Lo metta in una cuccia non troppo grande, con un cencio di lana pelosa».
«Va bene».
«Metta anche una borsa dell’acqua calda, sotto. Deve dargli il calore materno. Le segno anche un collirio. Glielo dia tre volte al giorno, solo nell’occhio malato».
«D’accordo».
«Sembra davvero una brutta infezione, per me resta cieco».
Sospirai, recuperando il mio micio. Mi chiedevo cosa mi avesse spinto nelle tombe etrusche. Non me n’era mai fregato un cazzo di quella roba, e poi si dice il destino.
Pruzzo segnò le mia vita. Feci tutto quello che c’era da fare, comprese quelle cose che non avrei mai raccontato. Le nottate, il biberon ogni ora, la borsa dell’acqua calda, il collirio, il batuffolo sul culo. Perfino i clisteri, quelli che prendono i bambini, perché ogni tanto Pruzzo s’inceppava e il cotone non serviva a nulla. Vivevo per lui, non c’era tempo e forza per fare nient’altro. Al mondo raccontavo scuse molto più ridicole di un gatto da svezzare. Intanto dimagrivo e non chiudevo occhio senza vedermi il suo musetto davanti, le sue zampette sulla faccia.
Un giorno su due pareva che Pruzzo dovesse crepare. Lo portavo dal veterinario di Calenzano, un tipo strano, più famoso per le battute di caccia al cinghiale che per la sua professione. Ogni volta faceva una puntura al mio cucciolo e scuoteva la testa.
«Mi sa che muore», diceva.
Invece Pruzzo campava. L’occhio migliorava, e dopo il latte arrivarono gli omogeneizzati, qualche ora di sonno, poi il magico mondo delle scatolette e delle scoregge incredibili, roba da far evacuare la casa, e poi la consapevolezza degli artigli, la demolizione della poltrona e delle tende del bagno, la sua lingua dappertutto, la carne rubata dal piatto, le prime corse nel prato, le prime gattine da corteggiare e la sensazione magica di aver combinato qualcosa di grandioso.
«Ormai non muore più», disse il veterinario-cacciatore alla centesima puntura.
Avevo voglia di mandarlo affanculo. Io lo sapevo da sempre che Pruzzo ce l’avrebbe fatta, perché era una bestia speciale. Con lo stile dei felini di razza e la tendenza all’obesità dei maiali d’allevamento. Bello, il mio micio.

(da Donne e topi, Fazi editore, 2004)

Dopo dieci anni alla Roma, di cui fu bandiera, nella stagione 1988-1989 Roberto Pruzzo trascorse un campionato con la Fiorentina; raccolse 6 presenze da inizio partita più qualche scampolo di gara; nello spareggio del 30 giugno 1989, contro la Roma, su cross di Roberto Baggio, segnò di testa il suo unico gol della stagione, che consentì ai viola l'accesso in Coppa UEFA.



lunedì 17 gennaio 2011

Postumi natalizi nel mio primo romanzo


Arrivai in centro verso le otto e misi la macchina nel parcheggio del mercato centrale. Uscii fuori, su via dell’Ariento, e Firenze mi sembrò cattiva. Una ragazza piangeva forte seduta sul marciapiede. Teneva la testa tra le ginocchia, affondava le dita nei capelli chiari. Un tipo camminava su e giù davanti a lei e scalciava una lattina. Il mercatino aveva già chiuso. Ai lati della strada restavano dei grossi carrelli di legno pieni di roba, coperti da teli verdi e incatenati. Passai davanti alla chiesa di San Lorenzo. Un piccolo camion della nettezza urbana spazzava i bordi della via. Faceva un gran baccano. Due uomini alti e grossi lo precedevano e colpivano i rifiuti con delle scope di saggina alte quanto loro. Sui gradini della chiesa un gruppo di africani cantava accompagnandosi con dei tamburi. Era l’unica nota viva nell’aria, l’unica che combatteva la spazzatrice. Il cielo continuava a mostrare i muscoli, senza far paura a nessuno. Forse a Pistoia avrebbe fatto due gocce. Misi le mani in tasca, il mio fiato fumava nel buio. Per aria c’erano ancora le illuminazioni del Natale. Erano spente, mosce, si godevano un filo di vento. Mi avvicinai a qualche vetrina e detti un’occhiata ai prezzi delle scarpe. Non sapevo se ridere o piangere. Lasciai perdere e tirai dritto.
Il Duomo era molto grande, e molto potente. Era metà sporco e metà pulito, le impalcature gli impacchettavano un pezzo di faccia in una rete irregolare. In giro c’era qualche turista, qualche coppia abbracciata, qualche barbone, tre suore, un paio di cani incazzati. Infilai via De’ Pecori e mi avviai verso il pub. Camminavo con calma, c’era pace, le finestre delle case erano serrate, luminose di televisioni. Vicino a Santa Maria Novella, una signora mi chiese se volevo un po’ d’amore. La guardai. Aveva l’età di mia madre, la faccia segnata dalla vita, il trucco su un’altra frequenza, le gambe nude e gonfie. Le sorrisi. Anche lei mi sorrise, senza vergogna, chiuse gli occhi e mi chiese una sigaretta.
«Non fumo, mi spiace», dissi.
«Beato te».
«Potrebbe smettere anche lei, no?».
«Passa quando vuoi, io sono sempre qui».
Ci salutammo con tenerezza.

(Da Donne e topi, Fazi editore, 2004)

giovedì 13 gennaio 2011

Domani mette neve


Grazie ad Alessandro Perissinotto un mio racconto (pubblicato per la prima volta nel 2005 su Parma Noir – Scrivere in giallo, MUP Editore, stavolta grazie a Guido Conti) è adesso disponibile online su E-Thriller [(...) I nostri e-book gratuiti si possono leggere sullo schermo del computer, sfogliandoli come un vero libro, oppure sui dispositivi portatili (sono ottimizzati per iphone, ipad, palmari) per averli sempre a disposizione sulla metropolitana, sul treno, in ogni piccola pausa. Se l'iniziativa vi piace, parlatene ai vostri amici, mandate in giro il link al nostro sito e segnalatela nei social network (...)].
Come scrissi ad Alessandro, credo pochissimo negli e-book in generale ma li intuisco proprio come uno strumento utile al racconto breve. Va be’, il discorso sarebbe lungo e complesso, intanto diciamo che Domani mette neve è disponibile qui.

martedì 4 gennaio 2011

Nel mio ultimo romanzo non cito nessuno


Ha già ripreso a piovere. Dal tetto del palazzo di fronte colano delle striature di muffe nere, che imbrigliano la facciata in una rezza. È oscena, sa di sciatteria e povertà, manutenzioni da rimandare. Al terzo piano, appartamento di sinistra, ci stanno sempre lenzuola bianche stese, giorno e notte, d’estate e d’inverno. È come se qualcuno le avesse dimenticate là, o se tendesse e stendesse di nascosto, per non farsi vedere da me. Al piano di sotto, Ugo s’affossa nella poltrona, a due metri dalla televisione. Sessant’anni, in pensione da una quindicina per via di un infortunio. Guidava ruspe per una ditta che lavorava con il Comune. Rimase con un piede sotto a un cingolo. Ora zoppica, ma poco più di me, s’aggrava giusto durante le visite di controllo. È solo, abbandonato come un cane, da sempre. Mai entrata una creatura in casa sua, neanche un canarino in gabbia, neanche il prete a benedire. L’ho visto tante volte masturbarsi, in questa precisa posizione, senza mai preoccuparsi di tirare le tende. Ha un uccello grosso come un matterello, ma deve essergli servito a poco nella vita. Più in alto a sinistra, nella casa che sta in faccia alla mia, ci vive un ragazzo sui vent’anni, da solo con la madre. Il padre è morto qualche anno fa e gli ha lasciato una piccola ditta di fibbie e gancetti di ferro, le rate dell’auto da pagare e certi debiti con i “neri” dell’agenzia ippica. La casa no, era già sua. Lui ha mollato la scuola e s’è messo sotto con la fabbrichetta. Non fa altro. Sta in fissa con il lavoro e con il calcio, l’unico svago sono le partite allo stadio, come massima trasgressione una trasferta. Donne zero. Si chiama Stefano. Spesso dà fuori di testa e se la prende con la madre, che si chiama Giada. Gridano che si sentono anche con i doppi vetri serrati. L’ho visto prenderla a schiaffi, afferrarla per i capelli, rincorrerla con la scopa. Una sera la scaraventò per terra e le piombò addosso e continuò a dargliele, sulla testa, sulle tette, sulla pancia. Afferrai il telefono senza sapere quale numero chiamare. Stetti lì, paralizzato con il cordless in mano, e continuai a guardarli. Pensai a quanta gente come me osservasse inerme da dietro le tapparelle, o forse nessuno, ero l’unico codardo. Pensai alla polizia e ai carabinieri ma poi chiamai proprio loro, in quella casa, e dal balcone vidi Stefano rallentare i colpi e smettere, alzarsi e passarsi le dita tra i capelli crespi, toccarsi le labbra, guardarsi le mani e incamminarsi di là, nell’ingressino, per andare a rispondere. Lasciai che lo facesse e poi riagganciai, e richiusi l’elenco telefonico senza appuntarmi il numero.

(da L'umanità, Elliot, 2010)