giovedì 3 novembre 2011

Decisione

Questa mattina, dopo uno scambio di e-mail con uno dei pochi Scrittori che stimi veramente e dopo aver attaccato il palo delle tende (una di quelle faccende di trapano, tasselli, viti, stupide confezioni che fanno sanguinare le unghie) in camera, nella mia nuova casa, ho deciso di restituire questo blog ai motivi che lo avevano generato – la comunicazione di appuntamenti pubblici ed editoriali. Nulla più. Cessano quindi futili post di chiacchiere e chiacchiericci, annotazioni, megalomanie, sbrodolate come questa. Per chi vuole comunicare con me, restano aperti i commenti di questo brano (che continuerò a monitorare) e l’indirizzo e-mail evincibile dal mio sito. Poi, un giorno, le cose cambieranno nuovamente. Ciao.

martedì 27 settembre 2011

Vasche


Torno al corso di nuoto. Avrei pagato la retta fino all’estate. Ho saltato qualche lezione dopo un brutto spavento, ma oggi ho voglia di riprovarci. Il punto è che ho deciso di imparare a nuotare a trentanove anni. È tardi. Non è per niente facile. Non è come per altre pratiche che non hanno tempo, né età. Questa ce l’ha, eccome. Il cervello ormai s’è imbrigliato e non è detto che decida di mettersi in gioco. Il corpo s’è impigrito, certi muscoli sono rimasti là, inutilizzati da chissà quanti anni, e poi le inibizioni, i freni. È una bella sfida e l’ho voluta azzardare. Lo scorso settembre mi sono tuffato per la prima volta nel cloro della piscina comunale insieme alle casalinghe del paese, i pensionati, donne incinte, certi studenti, certi storpi, incidentati in riabilitazione. Mi sono lasciato insegnare da un figlioletto muscoloso che avrà vent’anni meno di me e appena rificco la testa sotto mi prende in giro, ci giurerei. Ho provato ad ascoltarlo, l’ho guardato mimare i movimenti, la respirazione. Gli ho creduto, ho bevuto e tossito e ho avuto paura, ma non mi sono mai scoraggiato. Ora vado, un po’. Le mie gambe spingono forte, simmetriche, nell’acqua non zoppicano. A stile libero nuoto piuttosto bene, anche due vasche filate senza sosta. A dorso di meno, a rana per niente.


Vorrei che il mondo fuori somigliasse a questo mondo qua. Sto con la testa sott’acqua, nell’azzurro ovattato che pacifica, soffio le bollicine e sento l’affanno annebbiarmi la mente. Mi piace. Raggiungo il termine della vasca, poi riemergo, poggio i piedi sul fondo e rifiato. Vedo una donna della corsia accanto col sangue che le cola dal naso. Cerca di tamponarlo con una mano mentre passa sotto i cordoli che separano le corsie, ma non basta, il sangue gocciola nell’acqua e fa un brutto effetto. Allora non ci credo. È come se certe scene mi venissero a cercare. Come se tutto intorno fosse così. Vorrei chiedere conferma a qualcuno accanto a me, scuotere un vecchietto in costume e domandare: «È vero che accadono solo disgrazie? È vero che quella donna sta sanguinando?». Tutti si allontanano, la distanziano come un’appestata, nessuno l’aiuta per risalire le scalette. Alcune signore sembrano spaventate, altre divertite. Mi avvicino alla donna. Vorrei soccorrerla però adesso sono rallentato, come ipnotizzato. L’istruttore interviene prima di me, le tende una mano, la tira fuori, le chiede quale sia il suo accappatoio e glielo passa.
«Ti capita spesso?» domanda.
«Ho preso una botta» dice lei, mentre si incammina verso gli spogliatoi.
«E com’è possibile?» chiede l’insegnante. «Tanto forte?».
Allora lei si blocca e lo guarda in carogna, sforzando gli occhi al basso, demoniaci, mentre tiene la testa rovesciata indietro. Avrà cinquant’anni. Ha un bel culo, lo noto solo stamani, e unghie dei piedi minuscole e curate, gli avambracci pelosi più dei miei.
«Me la paga, quella troia» dice, e si riavvia spedita sul pavimento fradicio. «Troia bagascia, muso di capra».
Subito parto per una vasca a stile libero, senza neanche prendere il respiro adeguato. Come ogni volta crederò di affogare, ma neanche oggi capiterà.



[Da L'umanità, Elliot 2010]


domenica 28 agosto 2011

Pistoia, 29 agosto 2011



Pistoia - 29 agosto 2011 – ore 21.30
Presentazione libro e concerto alla San Giorgio di Pistoia
Alle 21.30 presso la Biblioteca San Giorgio di Pistoia, i Piloti del Caos presenteranno insieme a due giovani scrittori Emiliano Gucci e Michele Cocchi, il libro con i racconti dei 5 vincitori del concorso CREATIVART3 – Narrativa.
Ricordiamo i nomi dei 5 vincitori:
Emilio Baria – Tizio Caio Sempronio
Ombretta Guarnieri – Lo Scornio
Edward S. Portman – Dissociazione
Alessandro Daquino – Niente di Personale
Margherita Menichini – 7 Piccoli particolari
I Libri saranno distribuiti GRATUITAMENTE durante la serata e le rimanenti copie saranno distribuite nelle principali librerie di Pistoia.
Alle 22.00 invece toccherà alla rock band: Motherwell (indie rock)

Biblioteca San Giorgio
Via S. Pertini / 51100 / Pistoia (PT)

martedì 9 agosto 2011

Dovrò scrivere se vorrò parlarti [Straniero - tre]

Non avevo mai notato che qui ci fosse un ponte. Un pontile pedonale che si addentra nel mare.
Stretto, quasi una passerella su cui è difficile scambiarsi, ma tanto lungo che il finale non si vede, s’incunea nel tramonto, lo trafigge [...].

Continua su Zelda - cioè qui.

domenica 7 agosto 2011

Agota

«Non scrivo più, sono molto malata. Non è stata una decisione consapevole, è successo e basta. Semplicemente non me la sento, non ho più l’energia necessaria. Però ci sono ancora tanti temi che mi interessano, e su uno di questi ho cominciato a scrivere due anni fa. Ho tutto il libro in testa, praticamente è finito. È molto facile mettere sulla carta quello che ho immaginato. Così ho buttato giù un paio di pagine, ma mi sembrava di ripetere cose che avevo già scritto. Ho ricominciato, poi ho scritto il finale, diverse volte, alla fine ho lasciato perdere».
Agota Kristof (30 ottobre 1935 – 27 luglio 2011)


Sapessi quante volte, Agota. Sempre, da diverso tempo a questa parte. Ma come vedi fa lo stesso, io scrivo anche se tu non ci sei più, scrivo perché ci sei stata e hai scritto. I tuoi libri mi proteggono, lo faranno fino alla fine; li raccomando alle persone più care eppure vorrei sottrarli al mondo, divorarli e cancellarne ogni traccia – che restasse soltanto nei miei prossimi lavori, che morisse con me. Che bello se ci fosse stato bisogno di prendere un treno e poi un altro ancora e poi ancora un altro per venirti a cercare, trovarti, abbracciarti e dirti delle cose. Invece era già tutto qui.

lunedì 1 agosto 2011

Ventisei, Il Rio, pinot noir mugellano


Indicazioni timide, tipiche delle fortune da scovare, strada ritagliata nel bosco, vigne che esplodono di vita, etichette esclusive che già dicono molto, l’Appennino che solenne sorveglia su questo fazzoletto di Mugello che non ti aspetti; bella coppia Paolo e Manuela, Azienda Agricola Il Rio Cerrini, Vicchio, pionieri del pinot nero che anche a certe insospettabili latitudini si può fare, come no, e molto bene - con la terra che grazie al cielo lascia traccia in ogni sorso.
Come dire: bevi chardonnay, sauvignon blanc e pinot, certo, nella testa riecheggiano sapori internazionali ma in bocca resta il gusto di un qualcosa che si fa soltanto qui. Ed è questo che ti porti via, che rimane, questo di cui vorresti saper scrivere.
E invece bevi e basta, dai retta, che sennò tradisci il senso.
Il loro sito è qui.


mercoledì 27 luglio 2011

Sei morta

Se ancora scrivo è perché talvolta spero di giocare al tuo stesso gioco,
condividere le tue stesse fughe.

Per Agota Kristof, nata il 30 ottobre 1935 e morta oggi, 27 luglio 2011.

mercoledì 13 luglio 2011

Ciclomotore [2_fine]

[Continua]

Ci raggiungemmo e ci guardammo ancora, ripartimmo e iniziammo una danza motorizzata ed elastica tra le auto e gli autobus, nel traffico, a trovarci e distanziarci, nasconderci, seguirci nuovamente – le ronzavo intorno con il mio ciclomotore e poi la sorpassavo e la attendevo nuovamente, lasciavo che mi sorpassasse e mi attendesse. Io sentivo che in questo modo parlavamo, ci facevamo delle domande e ci davamo delle risposte, talvolta mentendo, ed era bellissimo, adesso anche lei sorrideva e i suoi occhi erano umidi di freddo e forse d’emozione, i colori delle cose d’intorno si scomponevano in arcobaleni cangianti e diamanti d’aria viva. Nel rettilineo più lungo giocai a volerla seminare sapendo di non poterlo né volerlo fare veramente. La superai sfiorandole minacciosamente il fianco e mi piegai sul manubrio girando al massimo la manopola del gas – in faccia i miasmi insalubri dell’indecenza umana e nel petto un tuffo ridente che mi faceva percepire tutto nuovamente possibile nel mio futuro più prossimo, così, in un attimo, per uno stupido scherzo che una sconosciuta aveva deciso di giocarsi assieme a me. Ero nuovamente contento. Poi, senza che l’udito potesse anticiparmi l’evento, nel casco, nel ronzio, nel vento, vidi sbucare la sua ruota anteriore alla sinistra della mia e nonostante il mio ciclomotore identico al suo viaggiasse al massimo della velocità la vidi appaiarmi completamente ed esitare un attimo al mio fianco, contenta perlomeno quanto me, e poi accelerare ancora per completare il sorpasso e sfuggirmi via mentre il rettilineo andava esaurendosi.
È più leggera di me, pensai.
È così meravigliosamente leggera.
Un pullman gigantesco e dissennato comparve dalla curva correndo in direzione opposta alla nostra, inopportuno, si fiondò contro di lei per travolgerla violentemente in un colpo spaventoso e irrimediabile – schiantarla, farla volare via, ucciderla, disintegrarla morta. Allora io senza pensare sterzai, aggrappandomi ai freni, rovinai sull’asfalto che mi ustionò la pelle e chiusi gli occhi nell’intenzione di non riaprirli mai più. Ma dentro avevo già capito tutto.

venerdì 8 luglio 2011

Intervallo, 2 [TB]

Ieri sera per un attimo ho visto Thomas Bernhard seduto a uno di quei tavoli, tra tutta quella gente, durante la kermesse per l’assegnazione del Premio.
Il mio televisore si è spento da solo.


lunedì 20 giugno 2011

Ciclomotore [1]

Per alcuni mesi ho guidato quotidianamente un ciclomotore per le strade di un paese. La gente di quel posto non parlava la mia lingua, non ero in grado di dialogare ma una mattina in qualche modo successe. Era un tragitto breve: la via in terra battuta che dal dormitorio raggiungeva la statale che accompagnava al reticolato cittadino che conduceva al posto in cui lavoravo. Cinquantacinque minuti in tutto. Quella mattina fermo al semaforo mi affiancò un ciclomotore identico al mio, stessa cilindrata e colore, ma guidato da una femmina. L’istante volle che ci guardassimo. Dal suo casco emergevano occhi scuri e labbra inespressive. Scattò il verde e lei partì prima di me. Aveva capelli neri che le ricadevano lunghissimi sulle spalle e ovunque, bisticciando col vento. Non seguii la sua traiettoria ma al semaforo successivo me la ritrovai nuovamente a fianco e ancora mi venne di guardarla in faccia. Anche lei mi guardò. Io probabilmente sorrisi. Aveva il naso piccolino e arrossato al centro di un volto delicatissimo e triste. Ripartì. Seguendola mi convincevo di sentire il suo odore e mi dicevo che sapesse di spiagge d’oriente di cui non potevo immaginare nulla.
[1.continua]

domenica 29 maggio 2011

Dal nostro inviato al Giro, 2: Ulissi, Nibali, Kiriyenka, Riccò

«La fiondata di Ulissi è arrivata prima del previsto ed è stato forse il mio bicchiere migliore, in questo Giro. La sua condotta nella tappa che ha vinto, e sul Sestriere, la sua prestazione generale nella prima vera corsa a tappe da professionista – i suoi occhi, dicono chiaramente che la vita da gregario gli andrà stretta molto presto. Ha qualcosa, lo capisci al volo. E ad aspettarlo rischi di far tardi».


«Lo Squalo ha retto, si è gestito, ha combattuto nella testa e nelle gambe, ci ha provato, ha capito, ha fatto i conti con la verità senza prenderla a cazzotti, perché tanto sarebbe come schiaffeggiare il vento. È adeguato e vincente e probabilmente lo sarebbe molto di più in un’epoca normale – come altri lo sarebbero stati in quella del Cannibale se non ci fosse stato il Cannibale. Quando attacca in discesa mi fa impazzire – come l’amore che torna sui luoghi che ti hanno conquistato e rinverdisce il senso; ma è un amore destinato al tradimento se ha bisogno dei numeri per trascinarti via, mentre l’amore ideale è quello che ti rapisce per indole, nell’essenza, quando di tutte le altre già ti accorgi più».


«Invece, tipo, dell’azione di Kiryienka mi sono accorto eccome; e da buon inviato sedentario ho ringraziato il televisore e tutte le diavolerie che permettono di recapitarmi in casa certe meravigliose sequenze: lo stesso presunto progresso che solitamente avverso».


«Il Post Scriptum del post, certo: voci sempre più insistenti danno il Cobra a un passo dal nuovo ingaggio e quindi al rientro per i primi di giugno, già pronto ad azzannare il Campionato Italiano. Fosse vero».

mercoledì 18 maggio 2011

Dal nostro inviato al Giro, 1: Nibali, Riccò, Ulissi


«Continuo tifando Vincenzo Nibali, lo Squalo dello Stretto: l’ho scelto un po’ di tempo prima che esplodesse e difficilmente mi schioderò dal sostenerlo. E poi mi piace come sta sulla bicicletta, come la guida. Però mi pare troppo pragmatico, troppo razionale, troppo simile a me per potermi rapire del tutto – spesso nei nostri eroi cerchiamo anche quello che non potremmo essere mai. Spero che nei prossimi giorni uno scorcio di discesa apra improvvisamente nella sua testa un varco di libertà assoluta».


«Mi mancano irrimediabilmente i morsi velenosi del Cobra di Formigine, Riccardo Riccò. Sabato scorso, sull’Etna, durante quella meravigliosa azione di Alberto Contador (un atleta stratosferico), me lo vedevo sbucare dal gruppo ad azzannargli i polpacci – rattristargli il ghigno. Verosimilmente se la sarebbero giocata sul filo, e così avrebbero fatto altre volte nei prossimi giorni, sulle montagne future. Anche se poi, magari, il Giro lo avrebbe vinto comunque il Pistolero». 


 «Per il prossimo anno mi aspetto anche Diego Ulissi. Anche se tifa Ju*entus».

sabato 16 aprile 2011

Parole chiave (che riconducono qui)

Questa le batte tutte: "ragazza ti invita vedere film hard mugello firenze". Ma sarà possibile?

mercoledì 13 aprile 2011

Delusione

Qualcuno è giunto qui, in questo blog, digitando le parole chiave "racconti porno gratis padre figlia". Chissà che delusione. Anche per l'inefficienza del motore di ricerca, dico.

lunedì 11 aprile 2011

Una presentazione

Tempo fa, una sera, d’inverno, durante una presentazione in una bella biblioteca di provincia, la giornalista che m’intervistava accennò al libro Firenze carogna e mi fece una domanda del tipo qual è secondo te il vero cancro di questa città? Poi mi passò il microfono. C’era un bel pubblico, non troppo numeroso ma attento e partecipativo. Nella mia testa provai a organizzare il discorso cucendo gli ingredienti di cui mi sentivo convinto, mentre già la mia bocca cominciava a borbottare qualcosa. Luoghi comuni. Rimandi alla storia, all’arte, alla bellezza come vincolo, alle dimensioni, alla politica, a quanto sono pericolosi certi poteri quando si radicano così profondamente e così a lungo, senza scampo. Poi dissi del carattere dei fiorentini, di quanto poco ne sapessi io di certe faccende, di quanto meglio sto nella mia grotta a battere sui tasti, lontano dai cancan del palazzo e della città. Non fu una bella risposta. Parlai troppo, e male. La parola cancro mi aveva come sempre spaventato. E cucivo ancora, nella mia testa, mentre la giornalista già mi stava ponendo la domanda successiva.
Quando la serata finì, a un ragazzo che s’intrattenne per fare due chiacchiere, dissi:
«Le consorterie: questo avrei dovuto rispondere per centrare il bersaglio con un colpo solo».

martedì 29 marzo 2011

Erodoto

Grazie a Marco Turrini, sul numero zero, un mio reportage un po' datato ma inedito. Leggibile anche qui.

venerdì 11 marzo 2011

Libreria

Una signora entra nella libreria dove lavoro e si affida ai miei consigli, dichiarando due sole priorità: vuole un romanzo originale e che tratti di sentimenti forti. Guardiamo insieme le copertine, apriamo i volumi, parliamo, cerco di capire ciò che le piace e individuo il libro che fa per lei. Mi sembra convinta, mi ringrazia, il mio aiuto è stato prezioso. La lascio in pace, continuo le mie faccende e la intravedo mentre inforca gli occhiali, legge qualche riga, sorride. L’ho conquistata. Poi si rigira il volume tra le mani, ne cerca il prezzo, lo individua. Si gela. Ci pensa qualche istante. Poi, con un po’ d’imbarazzo, ripone il libro al suo posto e se ne va a testa bassa, sconfitta, senza comprare niente. Non è abituata a rinunciare a un romanzo perché costa troppo. Neanche io ero abituato a vedere scene simili, ma capitano sempre più spesso.

giovedì 3 marzo 2011

La polka, il mio secondo racconto pubblicato (2002)

Fu nel lungo viaggio che mi riportava a casa, in treno, che pensai alla Polka di Varsavia. Attraverso i finestrini verdemarcio del convoglio il cielo era fosforo in fiamme, la terra cenere, i miei occhi faticavano a mettere a fuoco quello scivolare di paesaggi che bruciava già. Il treno sferragliava sotto il mio culo, ammasso di congetture d'altri tempi. Grande idea Varsavia. Grande esperienza il treno. Grande invenzione. Pensavo alla Polka di Varsavia e all'uomo in trionfo, al fascino e alla potenza dell'invenzione, del progresso, a quel mettersi in moto che gridava successo, vittoria, grandezza. Tempi grandiosi davvero. Pensavo. La mia epoca pare un poco diversa. Nonostante gli innumerevoli e strabilianti balzi in avanti degli ultimi decenni non mi sento coinvolto da una simile atmosfera, anzi, la lunga corsa pare vicina al grande stop e le ultime accelerazioni planetarie puzzano di apocalisse. Qualcosa dev'essere andato per il verso sbagliato.

Fermo, immobile, seduto sulla stessa sedia con le rotelline che non gireranno mai, costipato in un metro quadro di un supermercato di un milione di metri quadri, le mani afferrano un nuovo oggetto dal nastro, lo sorvolano sopra lo scanner che con un sottile raggio rosso ne scova il codice a barre e con un bip conferma l'operazione avvenuta, la stampante della cassa con un debole macinare stampiglia il prezzo sullo scontrino, le mani afferrano un nuovo oggetto, uova in plastica, ingoio uno sbadiglio, il bip, luce forte bianca, il macinare della stampante della cassa sullo scontrino, tricchettra, ciabatte di gomma a duemilalire, il fiato della cliente, maturo di digestione e di merda, il gran caldo, salsicce, bip, tricchettra, un bambino urla perché vuole la cioccolata, ci saranno cinquanta gradi, la fuori, e questro stronzo vuole la sua barretta di cioccolata, gli si scioglierà in mano, giù sul braccino, e poi lo investirà tutto, riuscirà ad assaggiarla almeno la sua barretta di cioccolata di merda? Bip, tricchettra, una cliente mi chiede una busta, bip, banane, tricchettra, mille banane, poi la chiede per favore, bip, mi barcameno nel nuovo gesto, tricchettra, le allungo la busta, grazie, prego, ghiaccioli, bip, tricchettra, i bambini piangono tutti, bip, i vecchi pure, tricchettra, avrei voglia di sgranchirmi il collo e di giocare a Un due tre stella!, bip, fagioli cannellini surgelati in busta formato caserma, tricchettra, un cliente mi chiede di cambiargli delle monete in una da cinquecento, bip, per prendere il carrello specifica, tricchettra, "che la machinetta non funge", detersivo per piatti bip tricchettra, è agosto, metà agosto, il condizionatore pompa aria vecchia a temperatura nuova che è uno sballo, seni semiscoperti mi scrutano da più o meno lontano, assorbenti per interni, bip tricchettra, sento la mia fronte rinnovarsi in milioni di piccole gocce di sudore, bip, tricchettra, apro il cassetto e con due dita, al sesto o al settimo tentativo, afferro la moneta da cinquecento che insiste a schizzare via con strafottente disinvoltura.
            Mi giunge un urto alle narici. Un prepotente grido di sudore stantìo rinvigorito da sudore neonato, figlio di una madre ascella che non so quale sia, condanna la mia testa a una stilettata di emicrania.
            Guardo il cliente che mi porge le sue monete con la mano tremolante.
            E' sull'uno e sessanta, avrà sessant'anni e sessanta capelli in testa, ha il viso magro e scavato pieno di macchie nere, le occhiaie scavate e nere, gli occhi neri e sottili sotto sopracciglie folte e nere, le tempie strette strette e le orecchie grandi e sporgenti, un poco come morsicate qua e là. Veste pantaloni di velluto verde di tre taglie sopra e una camicia di flanella marrone adatta agli inverni moscoviti. All'incontrarsi dei nostri sguardi sporge il mento in un sorriso povero di zanne, e porge la mano in un cenno brusco per ribadire la sua richiesta. Con cortesia. Avrebbe potuto schiaffeggiarmi. Avrebbe potuto avere scarpe rosse a pois. Potrebbe essere l'inventore del motore a scoppio.
            Tutto questo non ha importanza.
            Gli mostro il palmo della mano continuando a tenere strette le cinquecentolire fra indice e pollice. Passano diversi secondi prima che lui si accorga di ciò, connetta, venga a capo del suo palletico e deponga trecentocinquantalire sul palmo della mia mano, sfiorandolo con le sue dita magre sudate e marroni e sussurrandomi:
            "Le riconti".
            Serro forte il palmo e le dita libere, introduco la mia moneta nella sua mano già semichiusa in chissà quale incoerente tentativo di rinuncia e sento una goccia di sudore prendere coraggio, posarsi sulla sopracciglia destra e scendere giù a rigarmi il viso. Chiudo un attimo gli occhi e respiro in due inalazioni un poco più profonde del solito.
            "Vanno bene" gli dico. Avrei voglia di poggiare la fronte sullo scanner ed aspettare chissà quale bip, dormire, cacare, bere un mojito ghiacciato e grattarmi i coglioni all'ombra dei pioppi del Mugello. Avrei tante altre voglie ancora. Ma torno a far suonare ancora la melodia della grande distribuzione, a suon di grazie, ma certo, e si figuri, e bip e tricchettra. Adoro l'evoluzione.

            L'umanità che mi scorre davanti non mi piace per niente. Milioni di esistenze tutte uguali che si barcamenano per rubacchiare un secondo alla loro attesa, quattrocento lire da un buono sconto, una maniera gentile dal sottoscritto. Facce vuote, occhi che gridano solitudine, disperazione, dolore e morte. Mi fanno soltanto schifo tutte quelle carni mal messe in moto come una massa sola, un corpo unico ributtante e volgare, carne su carne, occhi, fegati, cervelli frantumati, una massa strisciante e deforme che sgattaiola via frantumandosi in mille code per mille casse diverse e ricongiungendosi un attimo dopo, ancora insieme, ancora carne, uno schifoso scivolare di sudori e forfore impazzite nell'orgia totale dell'umanità. Adoro l'evoluzione.
            Sono l'ultimo fottuto ingranaggio della grande catena di distribuzione alimentare messa su nel nostro amato paese di merda, ho la stessa sensibilità delle macchinette prezzatrici, lo stesso tatto dei rappresentanti di alluminio in rotoli, la stessa faccia brillante degli ultimi sette presidenti della Società, anche se tuttora, sentenziano i Responsabili, mi manca il loro rassicurante sorriso che pare, potrei non acquisire mai. Sono sostituibile da chiunque in qualsiasi momento, non si richiede esperienza, non si richiede interesse o conoscenza in materia, cercasi cazzone senza tatuaggi, piercing e orecchini visibili per impiego invidiabile da unmilioneedue al mese, inviare curriculum. Basta una supposta e le qualità base del venditore/cassiere modello ti si istallano nel DNA. Va introdotta su per il culo quarantottore prima dell'esordio; sono previsti richiami annuali per il mantenimento quoziente e aggiornamenti occasionali, senza considerare l'ampliazione corso e i corsi successivi (ben altre supposte) per chi vuol tentare l'escalation all'interno della Società. Eccoti pronto: sorrisi e schiettezza, sincera disponibilità, blablabla, datemi i vostri soldi e non importa se vi vendo la merda, l'importante è che la barca vada, facciamo andare la barca, se la barca va la Società va, se la Società va il Paese va, l'Europa va, il Mondo va, evviva il Sistema, evviva il cazzo moscio della new economy, alé alé alé son tornati i giorni d'oro, evviva la fica spelacchiata e farinosa della globalizzazione, forza coglioni, comprate la nostra merda e dateci i soldi che vi siete guadagnati sudando la vostra merda, producendo la vostra merda, vendendo la vostra merda, sono proprio felice di far parte di questo grande disegno, sono proprio felice di sentirmi socialmente utile, forza coglioni che la terra implora un altro brindisi, che il lavoro nobilita l'uomo, sorridete e spendete con noi, bip bip e tricchettra, gioite e spendete ancora, che poi giochiamo insieme.
            Disponetevi in fila, ordinati sui lati.
            Voltate le spalle e calate giù le mutande.
            Mostrate le chiappe.
            Chinatevi in avanti e dilatate il buco del culo.
            Sta passando SignorEconomia e se sarete fortunati sentirete bussare un qualcosa di grosso e duro, viscido, ma un poco soltanto, affilato quanto basta.
            Respirate profondamente e serrate gli occhi, siete i Prescelti.
            Accompagnate le sue spinte sincronizzando il vostro diaframma.
            Vedrete, entrerà senza dolore, e non dovrebbe durare troppo.
            Una spinta ancora, gemete o gridate, se vi fa stare meglio.
            Vi sentirete riempire dal fiume caldo della vita, il succo denso e appetitoso del dioCommercio.
            Gioite, siete i prescelti, i vincitori dell'ultimo, nuovo, grande Concorso. Il Concorso del Secolo, il Concorso del Millennio, il Concorso Totale. Tutti i premi messi assieme, tutti i sogni della vostra vita, tutti i soldi che vorrete, viaggi, villette, automobili, fiche e stalloni della madonna. Tutto come dentro la Televisione, incredibile no? Si compra e si vince tutto, non è un miracolo? Ogni diecimilalire il bollino, ogni cento bollini si riempie la scheda, ogni dieci schede il jackpot, ogni cinque jackpot il Jolly per l'accesso al Ricevimento.
            Località di lusso.
            Rispetto della privacy.
            Limousine con autista.
            Disponetevi in fila, ordinati sui lati.
            Voltate le spalle e calate giù le mutande.
            Mostrate le chiappe.
            Vi sentirete riempire dal fiume caldo della vita, il succo denso e appetitoso del dioCommercio.
            Stringete bene le pareti del culo, se volete aiutandovi con le mani, non lasciatene scivolare via neppure una goccia.
            Non lasciatevi colare la Vita fra le gambe, sarebbe irrispettoso.
            Succede una volta su un milione di essere i prescelti.
            Di sentirsi la Vita dentro.
            Serrate bene il culo, e spendete le vostre ultime centomilalire al nostro punto vendita, ce lo meritiamo, una bottiglia di champagne ci pare un modo carino di festeggiare con tutti i dipendenti, su, gli ultimi cento stronzi fogli sporchi da mille cazzo di lire.
            Poi tutto gratis.          
            Poi tutto regalo.
            Poi tutto come dentro la Televisione.
            La terra implora un altro brindisi.


Mi portano via in cinque, il mio teatrino è durato abbastanza, in piedi sulla solita sedia con le rotelline che non gireranno mai. Alcuni clienti sono fuggiti spaventati, altri mi osservano ancora divertiti. Fuori girano annientati dal sole lampeggianti impazziti di ambulanza e polizia, una scena da pessimo film. Ma quelli che mi vengono a tirar giù dal mio piccolo palco hanno la maglia del mio stesso colore, la stessa effige sul petto, gli occhi inconfondibili dei colleghi di sempre, gli inequivocabili modi gentili di chi mi è amico o di chi un giorno o l'altro si è cacciato su per il culo una supposta simile alla mia.
            "Sarà stato il gran caldo, povero ragazzo" sento nitida una voce rimbalzare dalla folla che mi osserva, scortato da quel micro esercito mentre salgo in auto coi carabinieri. L'ambulanza non mi ha voluto. La polizia neppure. Anche SignorEconomia pare aver chiuso con me.
            "Il gran caldo un cazzo" gli grido a gran voce, a quel parcheggio di zombi rincoglioniti.
           
Attraverso i finestrini verdemarcio della volante il cielo è fosforo in fiamme, la terra cenere, i miei occhi faticano a mettere a fuoco questo scivolare di paesaggi che brucia già. La volante sferraglia sotto il mio culo, ammasso di congetture d'altri tempi. Grande invenzione la volante, che volante non è e combatte col traffico al grido della stonata sirena estiva. Il carabiniere seduto fianco a me avrà sì e no vent'anni; mi toglie le manette e batte due colpetti sulla mia coscia, quasi a dirmi di star buono, o che non è successo niente, o altro ancora. Scruto appena il suo mento e la sua bocca, alzando gli occhi dalle mie mani. Ha la barba da fare. Poi guardo ancora fuori e sorrido un poco, e penso al viaggio di ritorno da Varsavia, alla Polka e all'uomo in trionfo, al fascino e alla potenza dell'invenzione, del progresso, a quel mettersi in moto che gridava successo, vittoria, grandezza. Tempi grandiosi, qualcosa dev'essere andato proprio per il verso sbagliato.
            Il caldo mi batte in testa davvero, il sudore mi riga copiosamente il viso, il mio sbadiglio liberato pare in grado di mangiarsi Firenze. Guardo in faccia il carabiniere e sorrido veramente.
            In fin dei conti la vita non fa poi tanto schifo.
            La terra implora un altro brindisi.

[Polka di Varsavia, liberamente ispirato all' omonima canzone di Vinicio Capossela (passione di quei tempi) e pubblicato in Parol&note n°2 (in quanto vincitore dell'omonimo premio letterario), edizione speciale Millelire Stampa Alternativa, novembre 2002]

lunedì 21 febbraio 2011

Nel 2000 - il mio primo racconto pubblicato

Più che come ricordi o come flash di memoria si impongono come fotogrammi. Chiari e dolcemente in movimento, in una sequenza che non è la loro ma che soltanto di poco si dilata e rallenta per lasciarli guardare, gustare fino in fondo. Ne esco abbastanza male. Mi vedo in ginocchio nella polvere e nel fango del campino di via Rodari, con le mani ai fianchi a guardarlo scivolare via per l'ennesima volta in quei passettini scomposti ed a loro modo armonici, zompettare e scavalcare orsi fino a dieci metri dalla porta, poi tirare e cadere per l'impatto con la palla ed infilare per la quinta o la sesta volta il nostro Leo che, nonostante la riconferma, portiere non lo sarebbe mai stato. Quella fu l'ultima sfida fra le sezioni A e B, eravamo in quinta elementare, poi saremmo passati alle scuole dei grandi e le squadre sarebbero cambiate. Perdemmo dieci a quattro e fu, lo giuro, l'ultima volta che provai odio per Nino. Poi l'odio si trasformò in ammirazione e in affetto, forse in amicizia, anche perché Nino finì nella mia sezione D e fu per tre anni la mia ala destra. Alla scuola dei grandi, che è tutta un'altra cosa.
            Avevamo il prato verde proprio attaccato alle aule del tempo pieno e giocavamo molto di più, quasi ogni giorno, certe volte anche quando pioveva, in quelle ore in cui i professori pensano esclusivamente ad altro. E fu in quell'anno che Nino esordì in una squadra vera, nelle ultime partite del campionato, con la maglia con il numero cucito dietro e con i colori veri, rossa e blu, che sembrava grande sul serio, nel senso degli anni, ed ancora più piccolo di statura in quei calzoncioni che gli arrivavano quasi sotto le ginocchia a baciare i calzettoni, legati col filo bianco sempre troppo stretto sopra al polpaccio, pena la circolazione e la mobilità della caviglia. Avevamo dodici anni e Nino era piccolo davvero. Dalle gradinate di legno vecchio dell'ex campo Fraticini, col ghiacciolo che sconfitto dal sole mi intorpidiva e mi colorava la mano destra di rosa, lo vidi scaldarsi ed entrare in campo a dieci minuti dalla fine, col quattordici sulle spalle a rilevare un sette malconcio ed esausto, lo vidi divincolarsi fra gli orsi, prendere un botta a destra, poi una a sinistra, raggiungere il pallone e ricominciare la magia, con quel sasso di cuoio che pareva parte integrante della scarpetta destra, tutto fango e dolore, tutto una cosa sola, con l'allenatore che prima gli urlava di passare la palla e poi restava con la bocca aperta e l'immenso sigaro marrone penzoloni, ad ammirarlo, come me, piccolo e scoordinato, farsi strada e scavalcare la linea di confine di quell'area maledetta, e poi ancora un orso, l'ultimo, e poi il tiro e poi giù, con il culo per terra, che non avrebbe imparato mai, e la palla in rete ed il portiere, un orso per davvero, che ancora doveva capire anche soltanto una virgola, di tutto quel discorso. Il mio ghiacciolo rosa finì per terra, e forse anche il sigaro marrone dell'allenatore. E lui, Nino, non esultò neppure, pareva intontito, intimorito da quell'esercito di uomini più grandi di lui, e i suoi compagni invidiosi e allibiti gli dettero qualche pacca sulle spalle e gli dissero bravo, niente di più. Giocò le altre due partite da titolare e segnò altri tre gol. L'anno seguente sarebbe stato l'idolo della squadra, il campioncino; e ciò che contava, per altri due anni, la mia ala destra.
            Era piccolo piccolo, Nino, il più piccolo della classe, era scuro di pelle ed aveva i capelli e gli occhi nerissimi, i tratti forti e decisi anche in quel visino da bambino, inequivocabile figlio del sud e del Mediterraneo, le spalle strette e cadenti, le gambine corte e sottili, leggermente curvate all'interno come i giocatori veri, i piedini piccoli, quasi minuscoli, a prima vista inefficaci ad ogni eventuale ulteriore richiesta di equilibrio. Nino era piccolo ed era fuori dal branco, silenzioso, taciturno, cresciuto su una strada che non gli aveva regalato altro che quella sfera di cuoio, nessuna disinibizione, nessuna sfacciataggine, niente che suonasse maleducato o utile alla vita. Parlava poco ed apprendeva con difficoltà, e pareva triste. Molti di noi non lo risparmiavano affatto, ed oggi il cinismo di quell'età non posso far altro che ricordarlo con un sorriso sulle labbra, un sorriso amaro, perdente, codardo. Noi eravamo belli e luminosi, le nostre mamme facevano la gara a comprarci il maglioncino più bello, già guardavamo le ragazze e quando potevamo le toccavamo pure, noleggiavamo i film porno con il fratello maggiorenne di Sandro ed ascoltavamo la musica rock perché suonava demoniaca. Nino era il topo, il negro, il sudicio anche se sudicio non era, sapeva riscattarsi soltanto con trecento palleggi di seguito e neppure pareva volerlo fare, non si vantava, non si mostrava, aveva paura. Forse certe volte anch'io l'ho preso in giro, forse per cinismo o forse perché volevo soltanto scuoterlo e tirarlo fuori da quel torpore, non lo so; so per certo che quell'arte fra i suoi piedi cominciai ad amarla e basta, nessuna invidia, nessuna gelosia, soltanto amore per quella magica danza scorretta, quei quattro passi che per me valevano la rivalsa e per il resto del gruppo, il moltiplicarsi degli sberleffi fuori dal campo.
            In quegli anni Nino giocò due buoni campionati, fu visto e stravisto dalla selezione provinciale che lo portò con sé quando Nino aveva già quindici anni, non so per quanto tempo, forse due stagioni; mi hanno detto che tornò presto nella squadra locale e so soltanto che quel grande campione non prese mai la giusta strada, e mai divenne un grande campione. Gli mancava qualcosa, dicevano gli uomini del campino e quelli del Bar Zotti, qualcosa di piccolo ma di importante, il colpo decisisivo al momento decisivo, la freddezza del rigorista all'ultimo minuto della finale di Coppa, problemi caratteriali e basta. Dicevano che aveva paura. Io a queste cose non ho mai creduto, ma forse era proprio così. Nino fece tanti gol, ne sbagliò pochi ma molto importanti, e sbagliò sette rigori su undici nel suo ultimo campionato con la Provinciale. Una cosa per me incredibile. Comunque sia, almeno anagraficamente, crescemmo, e ci perdemmo un po' tutti, ognuno ad inseguire una delle tante vite qualunque fra cui ci capitava di poter scegliere, tutte uguali, tutte malinconicamente omologate e tristi, ognuno coi sogni soffocati e repressi chiusi nel cassetto, con la chiave gettata nel fiume, appoggiati alla balaustra di una routine di ferro ad aspettare di veder passare il proprio cadavere, magari il più tardi possibile. E lui, che forse un sogno non lo aveva neppure, lui che forse era il solo, di quella disgraziata classe sessantotto di questo meschino paese di provincia, il solo a poter ambire ad un qualcosa di un po' meno meschino, beh, lui si perse come noi, vittima di tutto e di niente, di tutti e di nessuno, forse soltanto di sé stesso e di quella stretta testolina nera, si perse a fare il lavoro del padre, il muratore e l'uomo impalcatura, che proprio non riesco ad immaginarmelo in quelle manine piccole e in quelle zampette da topo, a tirar su case per gli orsi. Sante, che ha cinquant'anni più di noi e dai vetri del Bar Zotti ci ha visto crescere tutti, racconta che Nino appese le scarpette tassellate ad un chiodo di alluminio, in camera sua, dicendo che quando il chiodo si sarebbe fatto debole e si sarebbe piegato per farle rotolare al suolo, probabilmente a lui sarebbero cedute le gambe, e forse quel giorno avrebbe detto basta; ma è soltanto un'altra delle tante storie a cui non ho mai creduto.
            Suo padre morì cinque anni fa, vittima di un lavoro mal fatto; lasciò Nino con la madre e con quattro o cinque o forse sei fratelli, uno più piccolo dell'altro, quasi tutti a mettere mattoni su mattoni e calce su calce. Poi uno di loro, credo il maggiore, venne arrestato per spaccio di stupefacenti a Rimini, quando era in ferie, tre o quattro anni fa. Salvatore, l'unico che di vista conoscevo anch'io, si è sposato ed è andato a vivere a Torino. Gli altri non so.
            Nino è sparito da un anno e nessuno sa niente di lui, neppure sua madre. Non ha portato via neppure un bagaglio, niente di niente, non ha detto niente a nessuno, non ha lasciato scritto niente, non ha chiamato, nulla di nulla. Qualcuno giura che sia andato via con Isaeva, una ragazza bulgara che frequentava da un paio di mesi e che è sparita pure lei. Andato via, forse in Bulgaria. Qualcuno pensa che lo abbiano rapito gli arabi, per farlo giocare in un fantomatico campionato interplanetario. Qualcun'altro crede che sia morto. Le ricerche hanno una faccia di gomma e di merda, e la credibilità cacciata in fondo al buco del culo, e sembrano mute e rassegnate al niente.
            Io che ho sbagliato tanti rigori in vita mia, forse tutti, io che questa vita l'ho messa su a suon di chiodi di alluminio e bestemmie sul mondo, ecco, io come tanti altri lo immagino con quel pezzo di cuoio attaccato al piede a far fuori orsi bulgari in un campetto della periferia di Sofia, col culo per terra dopo un tiro scomposto e con gli occhi negli occhi di Isaeva, che immagino alta e bionda e bianca, con le scarpe rosse e con tutti quei sorrisi che Nino si è lasciato per strada. In camera sua non è stato mai trovato nessun chiodo, e neppure le scarpette, ma è stato trovato un foro di trapano sulla parete dietro alla porta, un foro piccolo piccolo, e si sa, certe leggende sono proprio dure a morire.
            Fortunatamente, per noi che restiamo.


 [Nino e la leva calcistica della classe '68 - racconto ispirato alla (quasi) omonima canzone di Francesco De Gregori e vincitore del premio “Parol&note”, anno primo, indetto dalla Biblioteca Comunale di Empoli, Firenze - pubblicato nell'omonimo (stavolta sì) libro edizione speciale Millelire Stampa Alternativa, marzo 2000]

domenica 13 febbraio 2011

Giovedì 17 febbraio ore 21.30 a Vicchio



Giovedì 17 febbraio 2011 ore 21.30
Emiliano Gucci
presenta
L’UMANITÀ
Biblioteca Comunale "Giotto" - Piazza Don Milani
Info: 0558448251 - biblioteca@comune.vicchio.fi.it


domenica 6 febbraio 2011

Fabbrica nel mio ultimo romanzo


Con Mario, prossimo alla pensione, complici nell’unico lavoro di imballaggio da svolgere in coppia. Non esiste, in fabbrica, tra tutta la varietà di mansioni, una peggiore di questa. Si tratta di pezzi da assemblare a caldo, non appena la scocca viene espulsa dallo stampo, cosa che accade ogni diciannove secondi. Se il pezzo madre si fredda, i pezzi complementari non s’incastrano più e va buttato via tutto. Il feeling nella coppia è indispensabile: uno degli operai recupera la scocca dalla buca, la pulisce dalle sbavature, ci applica i componenti; l’altro insacchetta l’oggetto compiuto, una pattumiera, ci mette il bollo della garanzia e l’adesivo con l’ISBN, ogni tre sacchi chiude una scatola e la ripone sul bancale di legno, ogni sedici scatole porta via il bancale e ne stende un altro, rifornisce di componenti il banco, di materiale grezzo i cassoni della pressa, di pastiglie colorate la tramoggia.
Stiamo lavorando da sette ore in questo vortice. Ne manca ancora una. Ci siamo dati il cambio tre volte, una ogni due ore, così adesso starebbe a Mario, fino alla fine del turno, spaccarsi le mani e bestemmiare per incastrare quei pezzettini prima che mamma si raffreddi.
È spossato. Si è sfilato i guanti, si aiuta con delle pinze, suda e s’affanna per tenere il passo della macchina, ma non ce la fa più. Ha dalla sua parte l’esperienza e certe astuzie conquistate sul campo; ha contro l’età, i polmoni, gli avambracci che non sono più quelli di una volta, le dita anestetizzate che non sanno più quello che toccano. Ha gli occhi lucidi di rabbia e non so cosa sia meno offensivo, proporgli ancora un cambio o lasciare che ci provi fino all’ultima goccia.
Continuo nella mia tiritera fingendo di non accorgermi del suo disagio. C’è un’aria pesa tra noi, di amicizia e rancore. Poi Mario fa tutto da sé. Credo che l’età sappia insegnare anche questo. Posa le tenaglie e ferma la pressa, così, che sembra a caso, e invece è nell’unico passaggio utile per non comprometterne il ciclo. Per una quarantina di secondi potrà stare in questo modo, a fauci spalancate, fumante, senza che niente si rovini e che nessuno se ne accorga, neanche studiando i numeri di fine produzione. Mi guardano, lui e la pressa, e non so chi tra i due appaia meno deprimente. Faccio per prendere il suo posto, di là dal bancone d’acciaio e legno intarsiato di donne e sfide calcistiche, politica zero. Mario mi prende per un polso e lo stringe. Le sue mani sono ancora possenti, ruvide che suonano quasi confortanti.
«Se non vuoi, chiediamo ai capi» dice. «Non è giusto che ti sacrifichi per me».
Non gli rispondo, se non stringendo a mia volta il suo polso da orango, con la mano sinistra, per far sì che mi liberi la destra e mi permetta di riattaccare il lavoro. Sfilo al suo posto, premo il bottone rosso che fa riavviare le danze. Mi infilo i guanti.

(da L'umanità, Elliot, 2010)

lunedì 31 gennaio 2011

Firenze


Un amico mi ha raccontato un sogno che ha fatto: Piazza Duomo deserta, senza più la cattedrale, né il campanile, né il battistero, ma soltanto un misero water nel mezzo, spoglio, senza neppure la cassa dello sciacquone. Chissà se significa qualcosa di preciso.