lunedì 21 febbraio 2011

Nel 2000 - il mio primo racconto pubblicato

Più che come ricordi o come flash di memoria si impongono come fotogrammi. Chiari e dolcemente in movimento, in una sequenza che non è la loro ma che soltanto di poco si dilata e rallenta per lasciarli guardare, gustare fino in fondo. Ne esco abbastanza male. Mi vedo in ginocchio nella polvere e nel fango del campino di via Rodari, con le mani ai fianchi a guardarlo scivolare via per l'ennesima volta in quei passettini scomposti ed a loro modo armonici, zompettare e scavalcare orsi fino a dieci metri dalla porta, poi tirare e cadere per l'impatto con la palla ed infilare per la quinta o la sesta volta il nostro Leo che, nonostante la riconferma, portiere non lo sarebbe mai stato. Quella fu l'ultima sfida fra le sezioni A e B, eravamo in quinta elementare, poi saremmo passati alle scuole dei grandi e le squadre sarebbero cambiate. Perdemmo dieci a quattro e fu, lo giuro, l'ultima volta che provai odio per Nino. Poi l'odio si trasformò in ammirazione e in affetto, forse in amicizia, anche perché Nino finì nella mia sezione D e fu per tre anni la mia ala destra. Alla scuola dei grandi, che è tutta un'altra cosa.
            Avevamo il prato verde proprio attaccato alle aule del tempo pieno e giocavamo molto di più, quasi ogni giorno, certe volte anche quando pioveva, in quelle ore in cui i professori pensano esclusivamente ad altro. E fu in quell'anno che Nino esordì in una squadra vera, nelle ultime partite del campionato, con la maglia con il numero cucito dietro e con i colori veri, rossa e blu, che sembrava grande sul serio, nel senso degli anni, ed ancora più piccolo di statura in quei calzoncioni che gli arrivavano quasi sotto le ginocchia a baciare i calzettoni, legati col filo bianco sempre troppo stretto sopra al polpaccio, pena la circolazione e la mobilità della caviglia. Avevamo dodici anni e Nino era piccolo davvero. Dalle gradinate di legno vecchio dell'ex campo Fraticini, col ghiacciolo che sconfitto dal sole mi intorpidiva e mi colorava la mano destra di rosa, lo vidi scaldarsi ed entrare in campo a dieci minuti dalla fine, col quattordici sulle spalle a rilevare un sette malconcio ed esausto, lo vidi divincolarsi fra gli orsi, prendere un botta a destra, poi una a sinistra, raggiungere il pallone e ricominciare la magia, con quel sasso di cuoio che pareva parte integrante della scarpetta destra, tutto fango e dolore, tutto una cosa sola, con l'allenatore che prima gli urlava di passare la palla e poi restava con la bocca aperta e l'immenso sigaro marrone penzoloni, ad ammirarlo, come me, piccolo e scoordinato, farsi strada e scavalcare la linea di confine di quell'area maledetta, e poi ancora un orso, l'ultimo, e poi il tiro e poi giù, con il culo per terra, che non avrebbe imparato mai, e la palla in rete ed il portiere, un orso per davvero, che ancora doveva capire anche soltanto una virgola, di tutto quel discorso. Il mio ghiacciolo rosa finì per terra, e forse anche il sigaro marrone dell'allenatore. E lui, Nino, non esultò neppure, pareva intontito, intimorito da quell'esercito di uomini più grandi di lui, e i suoi compagni invidiosi e allibiti gli dettero qualche pacca sulle spalle e gli dissero bravo, niente di più. Giocò le altre due partite da titolare e segnò altri tre gol. L'anno seguente sarebbe stato l'idolo della squadra, il campioncino; e ciò che contava, per altri due anni, la mia ala destra.
            Era piccolo piccolo, Nino, il più piccolo della classe, era scuro di pelle ed aveva i capelli e gli occhi nerissimi, i tratti forti e decisi anche in quel visino da bambino, inequivocabile figlio del sud e del Mediterraneo, le spalle strette e cadenti, le gambine corte e sottili, leggermente curvate all'interno come i giocatori veri, i piedini piccoli, quasi minuscoli, a prima vista inefficaci ad ogni eventuale ulteriore richiesta di equilibrio. Nino era piccolo ed era fuori dal branco, silenzioso, taciturno, cresciuto su una strada che non gli aveva regalato altro che quella sfera di cuoio, nessuna disinibizione, nessuna sfacciataggine, niente che suonasse maleducato o utile alla vita. Parlava poco ed apprendeva con difficoltà, e pareva triste. Molti di noi non lo risparmiavano affatto, ed oggi il cinismo di quell'età non posso far altro che ricordarlo con un sorriso sulle labbra, un sorriso amaro, perdente, codardo. Noi eravamo belli e luminosi, le nostre mamme facevano la gara a comprarci il maglioncino più bello, già guardavamo le ragazze e quando potevamo le toccavamo pure, noleggiavamo i film porno con il fratello maggiorenne di Sandro ed ascoltavamo la musica rock perché suonava demoniaca. Nino era il topo, il negro, il sudicio anche se sudicio non era, sapeva riscattarsi soltanto con trecento palleggi di seguito e neppure pareva volerlo fare, non si vantava, non si mostrava, aveva paura. Forse certe volte anch'io l'ho preso in giro, forse per cinismo o forse perché volevo soltanto scuoterlo e tirarlo fuori da quel torpore, non lo so; so per certo che quell'arte fra i suoi piedi cominciai ad amarla e basta, nessuna invidia, nessuna gelosia, soltanto amore per quella magica danza scorretta, quei quattro passi che per me valevano la rivalsa e per il resto del gruppo, il moltiplicarsi degli sberleffi fuori dal campo.
            In quegli anni Nino giocò due buoni campionati, fu visto e stravisto dalla selezione provinciale che lo portò con sé quando Nino aveva già quindici anni, non so per quanto tempo, forse due stagioni; mi hanno detto che tornò presto nella squadra locale e so soltanto che quel grande campione non prese mai la giusta strada, e mai divenne un grande campione. Gli mancava qualcosa, dicevano gli uomini del campino e quelli del Bar Zotti, qualcosa di piccolo ma di importante, il colpo decisisivo al momento decisivo, la freddezza del rigorista all'ultimo minuto della finale di Coppa, problemi caratteriali e basta. Dicevano che aveva paura. Io a queste cose non ho mai creduto, ma forse era proprio così. Nino fece tanti gol, ne sbagliò pochi ma molto importanti, e sbagliò sette rigori su undici nel suo ultimo campionato con la Provinciale. Una cosa per me incredibile. Comunque sia, almeno anagraficamente, crescemmo, e ci perdemmo un po' tutti, ognuno ad inseguire una delle tante vite qualunque fra cui ci capitava di poter scegliere, tutte uguali, tutte malinconicamente omologate e tristi, ognuno coi sogni soffocati e repressi chiusi nel cassetto, con la chiave gettata nel fiume, appoggiati alla balaustra di una routine di ferro ad aspettare di veder passare il proprio cadavere, magari il più tardi possibile. E lui, che forse un sogno non lo aveva neppure, lui che forse era il solo, di quella disgraziata classe sessantotto di questo meschino paese di provincia, il solo a poter ambire ad un qualcosa di un po' meno meschino, beh, lui si perse come noi, vittima di tutto e di niente, di tutti e di nessuno, forse soltanto di sé stesso e di quella stretta testolina nera, si perse a fare il lavoro del padre, il muratore e l'uomo impalcatura, che proprio non riesco ad immaginarmelo in quelle manine piccole e in quelle zampette da topo, a tirar su case per gli orsi. Sante, che ha cinquant'anni più di noi e dai vetri del Bar Zotti ci ha visto crescere tutti, racconta che Nino appese le scarpette tassellate ad un chiodo di alluminio, in camera sua, dicendo che quando il chiodo si sarebbe fatto debole e si sarebbe piegato per farle rotolare al suolo, probabilmente a lui sarebbero cedute le gambe, e forse quel giorno avrebbe detto basta; ma è soltanto un'altra delle tante storie a cui non ho mai creduto.
            Suo padre morì cinque anni fa, vittima di un lavoro mal fatto; lasciò Nino con la madre e con quattro o cinque o forse sei fratelli, uno più piccolo dell'altro, quasi tutti a mettere mattoni su mattoni e calce su calce. Poi uno di loro, credo il maggiore, venne arrestato per spaccio di stupefacenti a Rimini, quando era in ferie, tre o quattro anni fa. Salvatore, l'unico che di vista conoscevo anch'io, si è sposato ed è andato a vivere a Torino. Gli altri non so.
            Nino è sparito da un anno e nessuno sa niente di lui, neppure sua madre. Non ha portato via neppure un bagaglio, niente di niente, non ha detto niente a nessuno, non ha lasciato scritto niente, non ha chiamato, nulla di nulla. Qualcuno giura che sia andato via con Isaeva, una ragazza bulgara che frequentava da un paio di mesi e che è sparita pure lei. Andato via, forse in Bulgaria. Qualcuno pensa che lo abbiano rapito gli arabi, per farlo giocare in un fantomatico campionato interplanetario. Qualcun'altro crede che sia morto. Le ricerche hanno una faccia di gomma e di merda, e la credibilità cacciata in fondo al buco del culo, e sembrano mute e rassegnate al niente.
            Io che ho sbagliato tanti rigori in vita mia, forse tutti, io che questa vita l'ho messa su a suon di chiodi di alluminio e bestemmie sul mondo, ecco, io come tanti altri lo immagino con quel pezzo di cuoio attaccato al piede a far fuori orsi bulgari in un campetto della periferia di Sofia, col culo per terra dopo un tiro scomposto e con gli occhi negli occhi di Isaeva, che immagino alta e bionda e bianca, con le scarpe rosse e con tutti quei sorrisi che Nino si è lasciato per strada. In camera sua non è stato mai trovato nessun chiodo, e neppure le scarpette, ma è stato trovato un foro di trapano sulla parete dietro alla porta, un foro piccolo piccolo, e si sa, certe leggende sono proprio dure a morire.
            Fortunatamente, per noi che restiamo.


 [Nino e la leva calcistica della classe '68 - racconto ispirato alla (quasi) omonima canzone di Francesco De Gregori e vincitore del premio “Parol&note”, anno primo, indetto dalla Biblioteca Comunale di Empoli, Firenze - pubblicato nell'omonimo (stavolta sì) libro edizione speciale Millelire Stampa Alternativa, marzo 2000]

domenica 13 febbraio 2011

Giovedì 17 febbraio ore 21.30 a Vicchio



Giovedì 17 febbraio 2011 ore 21.30
Emiliano Gucci
presenta
L’UMANITÀ
Biblioteca Comunale "Giotto" - Piazza Don Milani
Info: 0558448251 - biblioteca@comune.vicchio.fi.it


domenica 6 febbraio 2011

Fabbrica nel mio ultimo romanzo


Con Mario, prossimo alla pensione, complici nell’unico lavoro di imballaggio da svolgere in coppia. Non esiste, in fabbrica, tra tutta la varietà di mansioni, una peggiore di questa. Si tratta di pezzi da assemblare a caldo, non appena la scocca viene espulsa dallo stampo, cosa che accade ogni diciannove secondi. Se il pezzo madre si fredda, i pezzi complementari non s’incastrano più e va buttato via tutto. Il feeling nella coppia è indispensabile: uno degli operai recupera la scocca dalla buca, la pulisce dalle sbavature, ci applica i componenti; l’altro insacchetta l’oggetto compiuto, una pattumiera, ci mette il bollo della garanzia e l’adesivo con l’ISBN, ogni tre sacchi chiude una scatola e la ripone sul bancale di legno, ogni sedici scatole porta via il bancale e ne stende un altro, rifornisce di componenti il banco, di materiale grezzo i cassoni della pressa, di pastiglie colorate la tramoggia.
Stiamo lavorando da sette ore in questo vortice. Ne manca ancora una. Ci siamo dati il cambio tre volte, una ogni due ore, così adesso starebbe a Mario, fino alla fine del turno, spaccarsi le mani e bestemmiare per incastrare quei pezzettini prima che mamma si raffreddi.
È spossato. Si è sfilato i guanti, si aiuta con delle pinze, suda e s’affanna per tenere il passo della macchina, ma non ce la fa più. Ha dalla sua parte l’esperienza e certe astuzie conquistate sul campo; ha contro l’età, i polmoni, gli avambracci che non sono più quelli di una volta, le dita anestetizzate che non sanno più quello che toccano. Ha gli occhi lucidi di rabbia e non so cosa sia meno offensivo, proporgli ancora un cambio o lasciare che ci provi fino all’ultima goccia.
Continuo nella mia tiritera fingendo di non accorgermi del suo disagio. C’è un’aria pesa tra noi, di amicizia e rancore. Poi Mario fa tutto da sé. Credo che l’età sappia insegnare anche questo. Posa le tenaglie e ferma la pressa, così, che sembra a caso, e invece è nell’unico passaggio utile per non comprometterne il ciclo. Per una quarantina di secondi potrà stare in questo modo, a fauci spalancate, fumante, senza che niente si rovini e che nessuno se ne accorga, neanche studiando i numeri di fine produzione. Mi guardano, lui e la pressa, e non so chi tra i due appaia meno deprimente. Faccio per prendere il suo posto, di là dal bancone d’acciaio e legno intarsiato di donne e sfide calcistiche, politica zero. Mario mi prende per un polso e lo stringe. Le sue mani sono ancora possenti, ruvide che suonano quasi confortanti.
«Se non vuoi, chiediamo ai capi» dice. «Non è giusto che ti sacrifichi per me».
Non gli rispondo, se non stringendo a mia volta il suo polso da orango, con la mano sinistra, per far sì che mi liberi la destra e mi permetta di riattaccare il lavoro. Sfilo al suo posto, premo il bottone rosso che fa riavviare le danze. Mi infilo i guanti.

(da L'umanità, Elliot, 2010)