domenica 6 febbraio 2011

Fabbrica nel mio ultimo romanzo


Con Mario, prossimo alla pensione, complici nell’unico lavoro di imballaggio da svolgere in coppia. Non esiste, in fabbrica, tra tutta la varietà di mansioni, una peggiore di questa. Si tratta di pezzi da assemblare a caldo, non appena la scocca viene espulsa dallo stampo, cosa che accade ogni diciannove secondi. Se il pezzo madre si fredda, i pezzi complementari non s’incastrano più e va buttato via tutto. Il feeling nella coppia è indispensabile: uno degli operai recupera la scocca dalla buca, la pulisce dalle sbavature, ci applica i componenti; l’altro insacchetta l’oggetto compiuto, una pattumiera, ci mette il bollo della garanzia e l’adesivo con l’ISBN, ogni tre sacchi chiude una scatola e la ripone sul bancale di legno, ogni sedici scatole porta via il bancale e ne stende un altro, rifornisce di componenti il banco, di materiale grezzo i cassoni della pressa, di pastiglie colorate la tramoggia.
Stiamo lavorando da sette ore in questo vortice. Ne manca ancora una. Ci siamo dati il cambio tre volte, una ogni due ore, così adesso starebbe a Mario, fino alla fine del turno, spaccarsi le mani e bestemmiare per incastrare quei pezzettini prima che mamma si raffreddi.
È spossato. Si è sfilato i guanti, si aiuta con delle pinze, suda e s’affanna per tenere il passo della macchina, ma non ce la fa più. Ha dalla sua parte l’esperienza e certe astuzie conquistate sul campo; ha contro l’età, i polmoni, gli avambracci che non sono più quelli di una volta, le dita anestetizzate che non sanno più quello che toccano. Ha gli occhi lucidi di rabbia e non so cosa sia meno offensivo, proporgli ancora un cambio o lasciare che ci provi fino all’ultima goccia.
Continuo nella mia tiritera fingendo di non accorgermi del suo disagio. C’è un’aria pesa tra noi, di amicizia e rancore. Poi Mario fa tutto da sé. Credo che l’età sappia insegnare anche questo. Posa le tenaglie e ferma la pressa, così, che sembra a caso, e invece è nell’unico passaggio utile per non comprometterne il ciclo. Per una quarantina di secondi potrà stare in questo modo, a fauci spalancate, fumante, senza che niente si rovini e che nessuno se ne accorga, neanche studiando i numeri di fine produzione. Mi guardano, lui e la pressa, e non so chi tra i due appaia meno deprimente. Faccio per prendere il suo posto, di là dal bancone d’acciaio e legno intarsiato di donne e sfide calcistiche, politica zero. Mario mi prende per un polso e lo stringe. Le sue mani sono ancora possenti, ruvide che suonano quasi confortanti.
«Se non vuoi, chiediamo ai capi» dice. «Non è giusto che ti sacrifichi per me».
Non gli rispondo, se non stringendo a mia volta il suo polso da orango, con la mano sinistra, per far sì che mi liberi la destra e mi permetta di riattaccare il lavoro. Sfilo al suo posto, premo il bottone rosso che fa riavviare le danze. Mi infilo i guanti.

(da L'umanità, Elliot, 2010)

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